Anni Settanta: la musica e la politica, il singolare e il collettivo, il sesso, la coppia, aperta / apertissima / quasi sfatta, l'on the road praticato o immaginato, i concerti, il fumo, i jeans a tubo e quelli a campana, la psichedelia, l'antipsichiatria, la California, i miti e i riti, il lirico e l'epico, l'ironia, il quotidiano, i giochi, le credenze e le speranze, il prima e il dopo, il quartiere e l'oratorio, la piazza e i bar.. Cos'è che si ferma nel tempo?

domenica 13 febbraio 2011


"Un fiume azzurro di jeans"
(Nanni Balestrini)

Negli anni settanta uno dei più feroci scontri culturali è stato sicuramente quelli tra i jeans a tubo e quelli a campana. A livello di look giovanile/alternativo si trattò di uno scontro senza quartiere.
All’inizio i jeans a campana, di chiara derivazione hippy, sembravano contrapporsi a una certa rigidità dei sessanta, simboleggiata da maglioncini stretti, camicie con le pinces e jeans a tubo. Tutto divenne per reazione più largo, maglioni oversize, ampie camicie da boscaiolo canadese e soprattutto jeans a campana. Chi non riusciva a procurarseli provvedeva ad allargare il fondo dei propri con un triangolo di stoffa, grazie all’aiuto di qualche madre, sorella o fidanzata ben disposte. Ma come aveva cantato Dylan i tempi stavano cambiando: quando i jeans a campana divennero gli unici in commercio, indossati da tutti, compagni, freak e gente comune che seguiva la moda fu chiaro in un momento alle menti più cool che era necessario cambiare stile.
Si tornò quindi, più o meno a metà del decennio, ai jeans a tubo, allora difficilissimi da trovare. Ci fu il solito sistema DIY, stringerseli in fondo da soli, se si era capaci, o ricorrere ancora alla benevolenza di madri, sorelle e compagne più versate di noi nell’arte dell’ago e filo.
Quando si scoprì che in un negozio di jeans di Nomansland, Il Calibrato, era arrivata una partita di jeans Wrangler stretti in fondo tutta l’ala più esteticamente consapevole, diciamo pure dandy, del movimento si precipitò nel negozietto, che si trovava in via Prione, quasi di fronte a uno dei due negozi di dischi della città. A parte chi scrive queste note ricordo che furono presenti certamente Angel, il suo amico Baldo, Ivan Puck, Henry Philiph e Paul Ghandi, tutti esponenti dell’ala freak, ma fautori di uno stile lontano da quello sbracato della massa. I jeans disponibili risultarono essere solo di velluto, beige e nero, e quasi tutti noi ne portammo via due paia a testa.
Per ulteriori rifornimenti bisognava spingersi fino al mercatino di Livorno, dove era più facile trovarli, o in qualche negozietto a Genova, oppure nelle grandi città.
Ricordo che trovai un paio di Levis a Roma e uno dei miei amici romani, provetto artigiano con le forbici, mi strinse quelli con cui ero arrivato, consentendomi così di avere un ricambio sempre appropriatamente cool.
Fu un gesto d’avanguardia, ma di lì a poco i jeans a tubo si ripresero il centro della scena, prima ancora dell'esplosione del punk, e quelli a campana rimasero, come era giusto, soltanto una piccola curiosità, una buffa moda durata pochi anni.

2 commenti:

  1. Tutto vero. A dimostrazione della superiorità dello stile denominato "tradizionale ma al di fuori" o anche "quella giusta via di mezzo che non dà nell'occhio" mi capitò personalmente di udire Angel sentenziare con disprezzo: "Calzoni a campana.. Che bello, banana!"

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  2. Citazioni sacrosante. Ne approfitto per dedicare questo scritto, per quanto "minore", agli amici e compagni Baldo, Henry e Ivan, che da qualche tempo indossano i loro jeans, rigorosamente a tubo, in un'altra dimensione.

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