Anni Settanta: la musica e la politica, il singolare e il collettivo, il sesso, la coppia, aperta / apertissima / quasi sfatta, l'on the road praticato o immaginato, i concerti, il fumo, i jeans a tubo e quelli a campana, la psichedelia, l'antipsichiatria, la California, i miti e i riti, il lirico e l'epico, l'ironia, il quotidiano, i giochi, le credenze e le speranze, il prima e il dopo, il quartiere e l'oratorio, la piazza e i bar.. Cos'è che si ferma nel tempo?

mercoledì 23 marzo 2011

  Non sarebbe potuto andare meglio: il 30 Aprile del 1975 la guerra del Vietnam ebbe finalmente termine. La sconfitta degli Stati Uniti non rappresentò soltanto la vittoria della resistenza del valoroso popolo vietnamita, ma anche quella di tutti i pacifisti che da anni manifestavano contro quella sporca guerra. Nel corso del tempo le immagini provenienti dal fronte avevano contribuito a far crescere l'indignazione e le conseguenti proteste in Occidente e Nam fu il primo (ed ultimo) esempio di guerra-spettacolo senza il controllo diretto del governo sulla propaganda, una specie di autogoal della democrazia.

  Gli USA ci misero anni a digerire la sconfitta e non ripresero gli interventi armati su vasta scala sino alla Guerra del Golfo, nel 1991, ma soltanto dopo aver convinto l'ONU ed alcuni alleati, tra cui l'Italia, ad intervenire. Le armi si erano evolute, ma soprattutto la capacità di manipolare l'informazione. Al fine di giustificare l'intervento militare s'iniziò a parlare di guerra giusta, missione di pace, esportazione della democrazia e il rais iracheno, Saddam Hussein, per aver  invaso il Kuwait,  venne paragonato addirittura ad Hitler.

  Nel 1999 toccò alla Serbia che gli Stati Uniti bombardarono insieme ad altri membri della Nato decollando da basi aeree italiane. Il  dittatore di turno era Milosevic, colpevole di non voler rinunciare alla provincia del Kosovo dopo lo smembramento della ex-Jugoslavia.

  In seguito agli attentati di New York subiti l'11 Settembre 2001, gli USA dichiararono guerra  globale al terrorismo, invadendo e occupando militarmente l'Afghanistan, in cui si sarebbe rifugiato l'imprendibile Bin Laden, capo mondiale del terrorismo e diabolica mente  organizzatrice degli attentati alle Torri Gemelle. Nel 2003 la guerra al terrorismo proseguì con l'invasione dell'Iraq, ove il solito Saddam Hussein,  scampato quasi per miracolo alla prima  Guerra del Golfo, sembrava celasse armi di distruzione di massa.

  Ogni invasione ebbe una giustificazione nuova, dunque, mirata a creare consenso e convincere  l'opinione pubblica mondiale della necessità dell'intervento. I pacifisti,  di guerra in guerra,  apparivano sempre più sparuti, numericamente lontanissimi dalle  oceaniche manifestazioni contro il conflitto vietnamita degli anni Settanta, anche perché i maggiori partiti della sinistra europea, tradizionalmente non interventisti, tendevano di volta in volta a fare distinzioni, se non proprio a giustificare le necessità delle invasioni stesse.

  Veniamo all'oggi. Proprio in questi giorni nel mirino dell'ennesima coalizione legittimata dall'ONU c'é Gheddafi, il pittoresco beduino che da 40 anni tiene soggiogato il popolo libico a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste.
L'occasione l'hanno data alcune province che, in linea con altri sommovimenti nordafricani,  si sono ribellate proclamando un governo provvisorio alternativo al regime di Gheddafi il quale, di conseguenza, ha mosso loro contro nel tentativo di riassumere il controllo dell'intero paese. L'intervento aereo degli alleati, ribattezzati  per l'occasione i  volenterosi (willing), ha avuto come protagonista a sorpresa  la Francia,  che è stata la prima a bombardare anticipando gli americani e disorientando gli altri paesi dell'alleanza.  Nonostante l'adesione alla coalizione, l'altro fatto nuovo è stato il palpabile imbarazzo dell'Italia nei confronti di questa guerra, soprattutto a livello governativo. Il nostro paese da diversi anni è il principale partner in affari della  Libia,  ricca di preziose risorse naturali come gas e petrolio, e il governo italiano  ultimamente ha rafforzato patti e accordi con Gheddafi (anche a carattere propagandistico, come la necessità di porre un freno agli sbarchi dei clandestini sulle nostre coste). A capo  dell'imbarazzo vi è il premier Berlusconi che, nel suo solito ben noto stile festaiolo ed elegante, ha più volte  ostentato pubblicamente uno stretto rapporto di amicizia personale col dittatore di Tripoli.
  Il punto della situazione politica italiana è dunque il seguente: destre e governo tendono a rallentare l'azione militare dei volenterosi, forse sperando ancora che il proprio partner resti Gheddafi, mentre il centrosinistra e addirittura il Papa difendono l'intervento.
  Un mondo apparentemente alla rovescia, insomma. Dalla parte dei pacifisti restano sinceramente i partiti minori e i movimenti  di sinistra,  come  in  cuor  suo la maggior  parte  del popolo italiano che, pur frastornato da tutta questa confusione, rimane e rimarrà contrario  alla  guerra  come  forma  prioritaria di  risoluzione delle controversie. 

  Give peace a chance, oggi come allora e per sempre.  

giovedì 17 marzo 2011


"Liberté, Égalité, Fraternité".
Scusate, ma avevo voglia di qualcosa che mi riportasse al senso di unità nazionale.

mercoledì 9 marzo 2011


Promemoria per l'11 Marzo

Non crediamo che siano sufficienti le decine di riviste, giornali, volantini, le centinaia di foto “archiviate” in questi anni al primo piano di Vag61 per ricucire il caro filo rosso della memoria che tanto piaceva alla sinistra, a cavallo tra gli anni ’60 e i primi ’70. Del resto, il movimento del ’77 non aveva mai voluto saperne di “padri”, di “fratelli maggiori”, di “tradizioni storiche”, di “esperienze comuni”. Aveva lasciato giusto una piccola nicchia agli inguaribili nostalgici che, anche allora, dibattevano, con orgogliosi sensi di appartenenza, sugli album di famiglia del movimento comunista o sugli alberi genealogici della tradizione marxista.
All’interno degli immensi “serpentoni” o dei “grandi draghi” multicolori, aveva avuto più fortuna chi si dilettava a teorizzare la rottura con il passato o la distruzione della linearità e l’interruzione della continuità, dell’insieme “passato-presente-futuro”.

Nessuno se lo ricorderà più, ma il Movimento del Settantasette elaborò una sua originale “riforma istituzionale”, proponendo una rettifica essenziale della carta costituzionale: “La Repubblica Italiana è una repubblica fondata sulla fine del lavoro salariato”.

C’era anche un programma minimo:
- Riduzione generale del tempo di lavoro salariato nel corso della vita. E non rinvio dell’età pensionistica a centocinquant’anni.
- Libera circolazione delle idee, delle tecnologie e delle sostanze psicoattive. E non proibizionismo e carcere per chi fa quello che gli pare con il suo proprio corpo.
- Comporsi e ricomporsi della comunità (o della singolarità) desiderante, libera circolazione del piacere e rispetto della sofferenza. E non santificazione della “zombie-famiglia”.
- Proliferazione di circuiti connettivi di comunicazione orizzontale. E non potere del danaro e della pubblicità sulla comunicazione.
- Nomadismo virtuale e fisico, abolizione di ogni barriera nazionale al libero movimento degli uomini e delle donne.

C’è qualcuno ancora su questa lunghezza d’onda,
o saremo costretti aspettare il 2017?

“Chi in questo paese non ha desiderato l’insurrezione, è un’anima morta che nulla ha vissuto delle passioni della storia”. (da un volantino del 1977)

martedì 8 marzo 2011


23 gennaio

Quando Rudi scrisse 23 Gennaio non aveva neppure vent’anni, io avevo qualche anno di più.
Roberto Franceschi, Franco Serantini, Giannino Zibecchi, Francesco Lorusso e tutti gli altri giovani compagni che caddero in quegli anni per mano di un potere cinico, violento e impaurito avevano più o meno la nostra età. Se fossero vissuti adesso sarebbero uomini di mezza età, incanutiti, magari ingrassati, con figli e forse anche nipoti, con alle spalle una vita di lavoro, di lotte, di amori, di affetti. Sono rimasti invece giovani per sempre, fissati una volta per tutte nell’attimo tremendo della morte e la nostra generazione ha avuto in sorte la terribile responsabilità di vivere anche la loro vita, di provare a inverare anche i loro sogni, che d’altra parte erano i nostri stessi sogni.
Molti di noi hanno continuato a farlo militando in una o l’altra delle organizzazioni della sinistra, altri hanno scelto, come si diceva allora, di “sciogliersi” nel movimento, ma per tutti e per ciascuno si trattava di dare testimonianza di quei valori, di quegli ideali di libertà, eguaglianza e solidarietà che ci avevano portato nelle piazze e nelle strade a gridare i nostri dubbi e le nostre verità, dal Sessantotto in poi.
Una volta sembrava così importante la differenza tra militare in Avanguardia Operaia, in Lotta Continua, nel Movimento Studentesco o semplicemente, da “cani sciolti”, nel movimento.
Oggi possiamo dire che l’unica differenza reale, pesante che consideriamo è quella tra chi, ognuno con il suo personale percorso, ha vissuto una vita fedele ai valori che avevano ispirato quelle scelte e quegli anni, “gli anni migliori della nostra vita” ho già scritto altrove, e chi invece quei valori ha dimenticato, riposto nell’armadio come capi fuori moda o peggio ancora consapevolmente abbandonato per saltare prima o poi sul l’osceno carro dei vincitori.
Noi, Rudi, io e tutti i nostri amici e compagni, del Collettivo Franceschi e quelli che abbiamo incontrato successivamente nel nostro percorso, non abbiamo molto da rivendicare se non questo: abbiamo continuato a vivere, a scegliere, a volte a sbagliare ma sempre avendo ben chiaro che siamo diventati quelli che siamo ora grazie a quello che siamo stati allora, e i valori e gli ideali che ci guidano continuano a essere, e non potrebbe essere altrimenti, quelli che abbiamo imparato tra le fila del movimento.
Assieme, idealmente, a Roberto, a Franco, a Giannino, a Francesco…
Quando sono finiti gli anni Settanta? O per meglio dire, quando quel fenomeno politico, sociale e culturale destinato a passare alla storia come Anni Settanta si è definitivamente esaurito? Alcuni ritengono che in Italia ciò sia avvenuto alla fine del Settembre 1977 (dopo il fallimento del Convegno di Bologna e la definitiva spaccatura del Movimento), altri nel momento del ritrovamento del cadavere di Aldo Moro (ucciso dalle Brigate Rosse nel Maggio 1978), alcuni sostengono  che il fenomeno non sia ancora davvero finito, altri escludono sia mai cominciato veramente.
Personalmente amo collocare la fine degli Anni Settanta in un giorno imprecisato dell'autunno 1979, nel preciso momento in cui sto uscendo dal cinema Astra dove ho appena visto per la prima volta Apocalypse Now. Mi guardo intorno, con The End dei Doors che ancora  mi ronza nelle orecchie e la psichedelia delle esplosioni al napalm che mi flasha nella testa,  riscoprendo lentamente il consueto quotidiano, gli autobus, i passanti, con un sorriso un po' ebete stampato sulla faccia, dovuto alla stupita meraviglia di aver assistito alla proiezione di un capolavoro.
Eh, già, perché quel film appena visto è destinato a diventare il film della mia vita, il preferito.  Willard, Kurtz, il Bene e il Male che si oppongono da sempre compenetrandosi ambiguamente in un gioco delle parti, in un Tao delirante di cui non esiste e mai esisterà davvero La Fine. Apocalypse Now, la Rivelazione. Adesso!

lunedì 28 febbraio 2011


If today was not an endless highway,
If tonight was not a crooked trail,
If tomorrow wasn’t such a long time,
Then lonesome would mean nothing to you at all.
Yes, and only if my own true love was waitin’,
...Yes, and if I could hear her heart a-softly poundin’,
Only if she was lyin’ by me,
Then I’d lie in my bed once again.

I can’t see my reflection in the waters,
I can’t speak the sounds that show no pain,
I can’t hear the echo of my footsteps,
Or can’t remember the sound of my own name.
Yes, and only if my own true love was waitin’,
Yes, and if I could hear her heart a-softly poundin’,
Only if she was lyin’ by me,
Then I’d lie in my bed once again.

There’s beauty in the silver, singin’ river,
There’s beauty in the sunrise in the sky,
But none of these and nothing else can touch the beauty
That I remember in my true love’s eyes.
Yes, and only if my own true love was waitin’,
Yes, and if I could hear her heart a-softly poundin’,
Only if she was lyin’ by me,
Then I’d lie in my bed once again.

Questa canzone Dylan la scrisse per Suze.

domenica 20 febbraio 2011


Sabato pomeriggio a Nomensland, sono più o meno le sette, passaggio con Sara per corso Cavour, sento improvvisamente gridare "Fascisti/carogne/tornate nelle fogne!", vado a vedere cosa succede. In una piazzetta ci sono sette o otto fasci, tutti giovanissimi, con un banchetto e la bandiera di Casa Pound, di fronte a loro una ventina di ragazzi, giovanissimi anche loro, gridano slogan antifascisti. La Digos, o come si chiama adesso, attenta vigila, in disparte. Nessun passante si avvicina, Sara ed io passiamo accanto al banchetto, Sara fa due pesanti commenti a voce alta, loro fanno finta di niente, lo shopping intorno continua sereno. Ripassiamo dieci minuti dopo, stanno reinpacchettando le loro cose, nessuno fa caso a loro, se ne vanno. Mi chiedo chi sia stato in comune ad aver dato il permesso di occupazione del suolo pubblico, ricordo poi che avevano autorizzato anche il convegno sullla X Mas in sala Dante, prima che facessimo sentire che Nomansland antifascista, dall'Anpi al May Day, considerava il convegno un'offesa alla memoria antifascista della città.
Mi sembra che anche su questo terreno, per certi versi così "arretrato", sia necessario tenere alta la guardia.

venerdì 18 febbraio 2011


Il compagno Daddo se n'è andato. Tutti quelli che hanno vissuto il Settantasette e hanno gridato "Paolo e Daddo liberi!" lo ricordano.

domenica 13 febbraio 2011


"Un fiume azzurro di jeans"
(Nanni Balestrini)

Negli anni settanta uno dei più feroci scontri culturali è stato sicuramente quelli tra i jeans a tubo e quelli a campana. A livello di look giovanile/alternativo si trattò di uno scontro senza quartiere.
All’inizio i jeans a campana, di chiara derivazione hippy, sembravano contrapporsi a una certa rigidità dei sessanta, simboleggiata da maglioncini stretti, camicie con le pinces e jeans a tubo. Tutto divenne per reazione più largo, maglioni oversize, ampie camicie da boscaiolo canadese e soprattutto jeans a campana. Chi non riusciva a procurarseli provvedeva ad allargare il fondo dei propri con un triangolo di stoffa, grazie all’aiuto di qualche madre, sorella o fidanzata ben disposte. Ma come aveva cantato Dylan i tempi stavano cambiando: quando i jeans a campana divennero gli unici in commercio, indossati da tutti, compagni, freak e gente comune che seguiva la moda fu chiaro in un momento alle menti più cool che era necessario cambiare stile.
Si tornò quindi, più o meno a metà del decennio, ai jeans a tubo, allora difficilissimi da trovare. Ci fu il solito sistema DIY, stringerseli in fondo da soli, se si era capaci, o ricorrere ancora alla benevolenza di madri, sorelle e compagne più versate di noi nell’arte dell’ago e filo.
Quando si scoprì che in un negozio di jeans di Nomansland, Il Calibrato, era arrivata una partita di jeans Wrangler stretti in fondo tutta l’ala più esteticamente consapevole, diciamo pure dandy, del movimento si precipitò nel negozietto, che si trovava in via Prione, quasi di fronte a uno dei due negozi di dischi della città. A parte chi scrive queste note ricordo che furono presenti certamente Angel, il suo amico Baldo, Ivan Puck, Henry Philiph e Paul Ghandi, tutti esponenti dell’ala freak, ma fautori di uno stile lontano da quello sbracato della massa. I jeans disponibili risultarono essere solo di velluto, beige e nero, e quasi tutti noi ne portammo via due paia a testa.
Per ulteriori rifornimenti bisognava spingersi fino al mercatino di Livorno, dove era più facile trovarli, o in qualche negozietto a Genova, oppure nelle grandi città.
Ricordo che trovai un paio di Levis a Roma e uno dei miei amici romani, provetto artigiano con le forbici, mi strinse quelli con cui ero arrivato, consentendomi così di avere un ricambio sempre appropriatamente cool.
Fu un gesto d’avanguardia, ma di lì a poco i jeans a tubo si ripresero il centro della scena, prima ancora dell'esplosione del punk, e quelli a campana rimasero, come era giusto, soltanto una piccola curiosità, una buffa moda durata pochi anni.

venerdì 11 febbraio 2011


Anni di pongo

Nella memoria degli anni settanta non trovano posto solo ricordi di eroiche manifestazioni, di lisergiche notti, di “sesso e volentieri”, di viaggi straordinari on the road e di concerti mitici, c’è spazio anche per aneddoti come questo, che potrebbe sembrare una cazzata ma che invece, a ben guardare, la sua logica per essere postato qui ce l’ha.
Nel movimento spezzino il compagno Picchio Del Sarto era noto per essere uno che cambiava partito più spesso che camicia (FGSI, PSIUP, P.O., M.S., situazionista, autonomo luddista, Autonomo con la maiuscola, PSI, RC, PDCI, e sicuramente ne dimentico almeno un paio) e per essere uno che le sparava sempre grosse. A sentir lui mentre qui a Nomansland penavamo per mettere insieme due o trecento persone per un corteo a Genova, dove lui era iscritto all'università, il movimento era fortissimo, organizzato e pronto allo scontro finale col Sistema. Ogni corteo genovese, nel suo racconto, era occasione di prova generale dell’assalto al Palazzo d’Inverno che certo non sarebbe tardato. Qui da noi, a parte i racconti epici e qualche giornale rivoluzionario fatto spuntare dalla tasca della giacca, non era proprio attivissimo, ma trovava comunque qualche ingenuo che lo attorniava quando iniziava i suoi racconti rabelaisiani. Uno di questi era un compagno sottoproletario di origine meridionale che era arrivato da poco in città e che stava a sentire Picchio come fosse l’oracolo.
Capitò in quei giorni che a Genova si organizzasse una manifestazione che si preannunciava piuttosto dura. In questi casi spesso Picchio per improcrastinabili motivi si tratteneva a Nomansland, maledicendo il destino che gli impediva di affrontare lo Stato faccia a faccia, ma quella volta non si era ricordato di procurarsi un alibi e l’entusiasmo dell’autonomo venuto dal Sud (di cui non riesco a ricordare il nome) fece sì che il nostro eroe decidesse di accompagnarlo, come Virgilio con Dante, attraverso l’Inferno, il ferro e il fuoco dello scontro di piazza.
Il giorno dopo sulla cronaca genovese del Secolo XIX si leggeva di duri scontri tra manifestanti e polizia, eravamo tutti curiosi di sapere come era andata dalla viva voce dei protagonisti.
Finalmente si manifestò nel nostro abituale luogo di ritrovo il compagno del Sud, ci affollammo intorno a lui chiedendogli notizie di prima mano.
Rispose con una frase lapidaria, cinque parole in cui rinchiuse un’intera vita: “Picchiu De Sartis tiene paura”…

martedì 1 febbraio 2011


Carissime/i,
condivido con voi due brevi riflessioni dopo la manifestazione della Fiom di venerdi scorso.
1-Dopo trenta e passa anni dal '77, dal post-fordismo, dall'operaio sociale, dalla moltitudine in esodo etc. etc. ci troviamo (ancora? Di nuovo?) in una situazione in cui l'unico argine alla malata volontà di potenza del potere e del capitale sembra essere la classe operaia, le tute blu, i metalmeccanici, come nei lontani giorni del Novecento passato.
Da qui a "Studenti-operai uniti nella lotta" il passo è breve, ma anche se chiamiamo proletariato cognitivo quello che una volta veniva definito proletarizzazione degli intellettuali siamo sempre alle categorie di quando mi sono affacciato alla politica, quarant'anni fa.
2-Visti da dentro il corteo di ieri la FdS e SEL, non perchè fossero pochi, ma per l'irrilevanza che sembravano avere, mi ricordavano da vicino l'epoca in cui i superstiti dei gruppi ex-extraparlamentari si riorganizzarono parte in Dp, parte nel Pdup, entrambe organizzazioni assolutamente dignitose ma altrettanto assolutamente irrilevanti sul piano dell'agire politico. L'unica differenza tra allora e oggi si può trovare nella forte visibilità del "personaggio" Vendola, che però non so proprio fin dove possa arrivare solo con la sua "singolarità".
g.

venerdì 28 gennaio 2011


Quelli come me, born in the Fifties, ricorderanno l'antenata di Comunione e Liberazione, Gioventù Studentesca o più familiarmente G.S., non certo il primo gruppo cattolico integralista ma certo il più originale, con aspetti "movimentisti" che potevano far presa sui giovani, e il più aggressivo nella ricerca di contendere spazi alla crescente (allora...) egemonia culturale della sinistra.
I rapporti tra il Movimento e G.S. prima e CL poi non furono mai idilliaci, lo dimostra questa canzone che i compagni del M.S. milanese dedicarono a G.S.
Non sono sicuro che Umberto Fiori ne sia l'autore, sicuramente la ascoltai da lui nei primi anni settanta.

Il testo di Giesse:

Non pensare alla lotta di classe
non son cose che fanno per te
se tu vieni una volta in Giesse
avrai tutti gli amici che vuoi,
se a Giesse tu apri il tuo cuore
oh che gioia che felicità
con l'aiuto del tuo confessore
puoi redimere l'umanità:

Se non ci fosse Giesse
quanti sarebbero i rossi
ma se tu sei di Giesse
al compito in classe
ti aiuta ...Gesù!

sabato 22 gennaio 2011


E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo
potremo rispondere: ricordiamo".
Ray Bradbury, "Farenheit 451"

Nel 1973 Roberto Franceschi aveva 21 anni, studiava economia politica all´
università Bocconi ed era un militante del Movimento Studentesco.
La sera del 23 gennaio di quell´anno il collettivo del Movimento Studentesco
della Bocconi aveva indetto un´assemblea fra studenti e lavoratori presso l´
aula magna dell´università; il rettore contrariamente ad una prassi ormai
acquisita aveva vietato l´ingresso ai non iscritti alla Bocconi, cioè di fatto
aveva vietato l´assemblea e per imporre quella decisione un reparto di polizia
era schierato davanti all´ingresso dell´università.
Non appena gli studenti e i lavoratori giunti per partecipare all´assemblea
accennarono una protesta i poliziotti non esitarono a caricarli; ci fu un breve
scontro e quando già i manifestanti si stavano allontanando agenti e funzionari
di polizia aprirono ripetutamente il fuoco contro di loro con le rivoltelle d´
ordinanza.
Due giovani furono colpiti alle spalle: Roberto Piacentini, nonostante la
gravità della ferita, si salvò. Roberto Franceschi morì il 30 gennaio dopo
sette giorni d´agonia.

"Era un compagno era un combattente
per il socialismo per la libertà
per questo il governo un plotone mandò
e un sicario alle spalle sparò".

(da "Compagno Franceschi", una canzone scritta di getto da Franco Fabbri dopo l'assassinio di Roberto)

23 gennaio 1973/23 gennaio 2011

giambo

"...nel cuore e nel canto di chi lotterà
il compagno Franceschi vivrà!"

venerdì 14 gennaio 2011


La rivoluzione é finita, abbiamo vinto.
Una battuta ironica.
In realtà l'utopia di una comunità che si sveglia e si riorganizza fuori del modello predominante di scambio economico del lavoro e del salario. L'estinzione del lavoro diventa la tendenza oggettiva.
Non si può più applicare il modello della rivoluzione politica: in questo senso la rivoluzione é finita. 

Che cosa significa: abbiamo vinto?
Una sorta di scongiuro, o piuttosto l'indicazione di un atteggiamento mentale, creare le condizioni per affrontare in termini di sperimentazione consapevole e collettiva il processo di estinzione del lavoro.
Questa intuizione non riuscì in nessun modo a tradursi politicamente nel Convegno di Bologna del settembre '77.
La proposta nuova aveva scelto il silenzio perché in quel momento non aveva nulla da dire.
Quello che noi avevamo da dire l'avevamo detto.
Quello che avevamo da dire era: ragazzi, ci aspettano degli anni disastrosi, però in questi anni si dispiegherà un processo futuro che noi possiamo tentare di interpretare, in cui i processi d'autonomia potranno manifestarsi nei nuovi strati. 

All'inizio nessuno pensava che quell'occasione ci avrebbe così preso la mano. 

É stato invece un momento in cui tutti hanno sentito che bisognava andare lì, perché sarebbe stata un'occasione in cui ci si sarebbe potuti vedere, parlare, contare.
Ci si aspettava qualcosa di magico, si era creata un'aspettativa drammatica.
Tutti erano convenuti a Bologna con grandi attese che erano andate frustrate, perché una soluzione politica non c'era. 

Alla fine un sottile senso di amarezza, di delusione, di frustrazione riaccompagna la gente nei propri territori e luoghi di vita e di lotta.
Tutti si ripromettono di continuare, di andare avanti, ma nessuno sa nascondere a se stesso la drammatica domanda:
avanti come? avanti dove? 



sabato 1 gennaio 2011


The year in which
Peace spoke to Power
and Peace prevailed

The year in which
The voice of Reason
stayed the hand
of War

The year in which
the Wealthy of the
Earth gave way –
and ownership
of All devolved on
All

The year no lock
would hold,
no act of violent
Will
prevail, no order
find
its tongue

This was the year
of Peace and
Pause,
The year
of
Silence.

Chris Cutler, Anno Mirabilis